martedì 15 gennaio 2013

I vantaggi della volpe che non arriva all’uva

Negli ultimi giorni mi è capitato di pensare alla mia (non) carriera. E di vederla sotto una diversa prospettiva.
E, lo devo riconoscere, parte del merito va ai libri sul downshifting di Simone Perotti.
Quando ho iniziato a lavorare per l’azienda presso la quale ancora lavoro ero entusiasta e molto eccitata, come spesso mi accade di fronte a situazioni nuove e stimolanti. Ed ho riconosciuto subito la mia grande fortuna: laureata prima di Natale, ho fatto giusto in tempo a godermi il viaggio di laurea, che prima di Pasqua già stavo lavorando. Per un’azienda che tra l’altro non avevo mai sentito nominare: mi avevano contattata loro. Come si fa a non essere felici per questo? Sarebbe uno schiaffo alla miseria! E poi ero esaltata anche perché, in quanto nuova arrivata, (ma questo l’ho capito solo qualche anno dopo), ero molto caricata dai miei capi, che mi promettevano il paradiso per fomentarmi, farmi lavorare più volentieri e quindi produrre di più.
Ma col tempo la mia carriera non è andata come avevo immaginato all’inizio e come me l’avevano dipinta. E’ stata molto, ma molto più discreta, sebbene non possa negare che qualche soddisfazione me l’abbia regalata.
Negli anni ho fatto di tutto per emergere, non tanto verticalmente, nel senso di scalare la piramide del successo, quanto orizzontalmente, poiché volevo specializzarmi maggiormente in determinate mansioni tecniche, fino a diventare un valido consulente. Ma per una serie di ragioni che non sto a spiegare, dipendenti ovviamente anche da me e non solo dagli altri, questa sperata carriera non è mai arrivata.
E così mi ritrovo come la volpe che non è arrivata all’uva, in sostanza: la suddetta carriera non mi interessa più.
Quando ho acquisito questa consapevolezza, ho subito ammesso che in realtà mi sono rassegnata perché, in questa azienda, non ho alternative, e la crisi economica non mi aiuta a trovare un lavoro migliore. E che quindi non c’è niente di lodevole nella mia rassegnazione. Come la volpe che dice che non è più interessata all’uva perché non arriva a prenderla, così io non sono più interessata alla mia carriera perché non l’ho ottenuta. Ma oggi, dopo soli otto anni di lavoro, per quanto questo possa sembrare forzato, sono contenta che le cose siano andate così. C’è chi arriva alle mie conclusioni dopo vent’anni o anche dopo la pensione. E chi purtroppo non ci arriva mai. Io non mi posso lamentare.
Sono assolutamente convinta che nulla accade per caso, o almeno nella mia vita è stato così. E sono convinta che anche la mia mancata carriera non sia stata un caso. Perché, ambiziosa come ero, se avessi fatto la scalata al successo, avrei finito col vivere principalmente per lavorare, dimenticandomi che invece si lavora per vivere. E questo è un concetto che adesso per me è fondamentale. Naturalmente credo che sia un vantaggio se il nostro lavoro ci piace, visto che dobbiamo trascorrere lì almeno nove ore della nostra breve giornata, ma io tutto sommato posso dire che questo è il mio caso. Non posso dire che il mio lavoro non mi piace affatto, che non sia inerente ai miei studi, così come non posso negare che la mancanza di grosse responsabilità mi concede degli innegabili privilegi. Quello che mi interessa ora è fare bene il mio lavoro per guadagnarmi lo stipendio a fine mese, e poi cogliere l’occasione della non-carriera per dedicarmi alla mia vita privata. Della serie: non tutti i mali vengono per nuocere. O, se preferite, dietro ogni difficoltà c’è un’opportunità.
I primi anni in cui ho lavorato facevo una vita assurda: trascorrevo al lavoro anche dodici ore al giorno, mi facevo pagare tutti gli innumerevoli straordinari, perché non avrei potuto usufruire del conto ore accumulato, e poi frequentavo un corso d’inglese privato, (che detestavo, (non mi è mai piaciuto studiare le lingue), perché sapevo che con un pessimo inglese, quale era il mio, non sarei andata da nessuna parte. E’ stato giusto così e sono contenta di aver fatto tutto questo, (soprattutto perché l’inglese mi permette di ascoltare meravigliose storie). Insomma, non rimpiango assolutamente nulla. Ma adesso penso sia giunto il momento di lavorare senza arrivare ad un esaurimento nervoso oppure sempre in ritardo agli appuntamenti, e senza dover rinunciare a fare ciò che realmente mi gratifica. E, perché no, anche a riposare, se ne sento il bisogno o ne ho voglia.
Così oggi ho fatto una mossa che considero profetica per il nuovo anno: ho firmato un foglio in cui dichiaro che per tutto il 2013 (almeno) carico gli straordinari interamente in conto ore. Quei pochi che faccio. Sì, perché non è che ci sia tutto il gran lavoro che c’era prima della crisi del 2009, e poi anche perché, pur non negando la mia disponibilità, (che però non è più incondizionata come prima), una volta terminato il mio orario di lavoro, voglio spendere il mio tempo godendomi la mia vita. E quei pochi straordinari che faccio, andando in conto ore, fanno sì che io quel tempo dedicato al lavoro possa recuperarlo nella vita privata. Come dice una persona speciale: il tempo libero non ha prezzo. Soprattutto se il prezzo è misero, aggiungo io.
E così, dopo otto anni, sono arrivata alla conclusione che il lavoro nobilita l’uomo, ma che la vita è troppo breve per essere spesa solamente a lavorare. E che invece dobbiamo prenderci del tempo, il più possibile, per coltivare i nostri interessi. Io voglio dedicare il mio tempo libero alle poche persone che amo, al mio gatto, agli animali in generale, ai viaggi, al teatro e alla scrittura. Tutte cose che mi rendono felice e mi fanno sentire bene.
E non è un caso se proprio oggi che ho firmato quel foglio, sono uscita dal lavoro in perfetto orario e ora sono qui, seduta al tavolo della mia bella ed accogliente casetta, a scrivere.

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